mercoledì 12 agosto 2009

Perchè perdere tempo a leggere vecchi miti...?

Che cosa rappresenta il mito oggi, nel XXI secolo? E’ forse solo una cozzaglia di racconti e fiabe senza un senso per noi uomini “evoluti”? Si tratta forse di una sorta di commedia per intrattenere gli uomini del tempo?

Quello che cercherò di analizzare è una serie di profonde analogie che attraversano praticamente tutti i miti antichi, spaziando dalle civiltà del Medio Oriente, alll’Islanda, alla Polinesia, all’Africa fino all’America pre-colombiana. Partiamo dall’immagine del diluvio, presente ovunque ed in qualsiasi civiltà (anche lontana dalle coste!), ma con dimensioni universale solo nei racconti biblici, sumerici e babilonesi. Così il dotto, addolcito studioso moderno parte alla ricerca di evidenze storico-geografiche che diano concretezza a quest’immagine catastrofica, ricercandovi magari catastrofi passate, senza accorgersi del vero significato di questi racconti.

Quello che il mito (strumento e linguaggio alquanto ambiguo) rappresenta, è invece un’immagine cosmologica, di ciò che sta “al di sopra” e non potrà mai spiegare gli eventi storici, od avere evidenze geografiche. Infatti gli antichi utilizzavano questi racconti come veicolo di una conoscenza superiore, usavano metafore semplici e concrete perché anche il volgo ne parlasse, se ne appassionasse e ne serbasse memoria, senza peraltro carpirne il vero significato cosmologico, intimo segreto di un’elite di grandi conoscitori dei meccanismi dell’universo.

In queste metafore troviamo la terra come il piano ideale passante per l’eclittica, dove l’equatore divide a metà lo zodiaco che è inclinato rispetto ad esso di 23,27 gradi. Così la fascia settentrionale dello zodiaco (ovvero quella che va dall’equinozio primaverile a quello autunnale) è detta terra emersa, mentre quella meridionale è il mare. Gli antichi sapevano che i punti equinoziali si spostano lungo l’eclittica in direzione opposta a quella del sole, questo perché l’asse terrestre non si mantiene parallelo a sé stesso durante il giro attorno al sole, descrivendo nel cielo un cerchio attorno al polo dell’eclittica. Questo fenomeno è il moto della precessione degli equinozi, che ha una durata di circa 26.000 anni, diviso in 12 ere o età del mondo, a seconda di qual è la costellazione zodiacale che sorge immediatamente prima del sole all’equinozio di primavera, segnandovi il posto dove il sole dovrà sostare. Per questo motivo questa costellazione viene chiamata “portatrice del sole” o “principale pilastro del cielo”. Così capiamo che quando i cinesi consideravano la terra come “quadratica”, non si riferivano più alla terra in senso fisico-spaziale, ma ai 4 punti (i 2 solstizi e i 2 equinozi) dominati da una costellazione. Quella costellazione avrebbe quindi retto il sole, sorgendo all’equinozio primaverile, per circa 2200 anni, per poi finire il proprio tempo con l’immagine di una terra che sarebbe sprofondata nelle acque (la fascia meridionale) e la nascita, sempre dall’acqua di una nuova terra. Questo dovrebbe permettere di capire meglio il Mito di Deucalione, una sorta di Noè che costruisce un’imbarcazione per salvarsi dai 9 giorni di diluvio che si abbattono sulla Grecia per volere di Zeus, oppure la Profezia della Sibila (anche qui finisce una terra e ne sorge una nuova dalle acque), insomma la costante è la rinascita di una nuova terra (nuova età) dal mare.

Il susseguirsi di un’era del mondo ad un’altra ha però moto contrario rispetto al ciclo del sole, così nei secoli siamo passati dall’era del Toro a quella dell’Ariete (quando Mosè si scaglia contro il suo popolo che danza intorno al vitello d’oro o toro rappresentante un’era ormai terminata, per portarne una nuova discendendo dal Sinai incoronato con le “due corna” dell’Ariete), e dall’era dell’Ariete a quella dei Pesci, dove ci troviamo tutt’ora. E qui si parla di Cristo, detto anche il Pesce (i primi cristiani usavano il pesce come simbolo delle loro riunioni), così quando Virgilio, considerato addirittura un pre-cristiano da alcuni studiosi, saluta la nuova età con l’espressione “nasce di nuovo una grande serie di secoli”, dimostra un’attenta conoscenza astronomica. Così scopriamo che il 6 A.C. (anno in cui viene fatta cadere la nascita di Cristo) è l’anno della grande congiunzione di Saturno e Giove nei Pesci (la stella cometa?), oltre che il grande ritorno della Vergine nell’equinozio autunnale. Tutto questo dimostra il significato ultimo che gli antichi davano alla lettura del mito, come enigma in cui leggervi i grandi cicli del Tempo, da cui interpretare i voleri divini e come mezzo di diffusione di un’attenta conoscenza.

Partendo dalla storia di Saxo Grammaticus, che ha ispirato Shakespeare nel racconto di Amleto, troviamo due analogie con il mito islandese: la prima è il riferimento al personaggio Orvendel (il padre di Amleto), la seconda è un passaggio del racconto in cui il mare viene definito Mulino di Amloði. Quindi Saxo si riferisce chiaramente a quel mito islandese, dove si narra di un certo Fròði, proprietario di un enorme mulino, che si era procurato due fanciulle gigantesche, Fenja e Menja, per far funzionare il suo Grotti (il mulino), dalla cui macina uscivano oro, pace e felicità. Ma l’avidità di Fròði, che costringe le due fanciulle a lavorare giorno e notte, porterà queste a ribellarsi al loro destino e a cantare una profezia, che avverandosi farà uscire dal mulino un esercito di soldati che comandati dal Re del Mare uccideranno Fròði. Ma il Re del Mare, portato il Grotti sulla propria nave obbliga le due fanciulle a tornare al lavoro, ma questa volta dal Grotti uscirà sale per poi sprofondare nella notte negli abissi del mare. Da allora nel mare si trova un gorgo dove l’acqua precipita dentro il foro della macina di questo mulino.

Lo schema di questo mito si trova in molte altre culture, e tratta sempre di un inizio, un’Età dell’Oro, a cui però farà seguito una catastrofe, una discontinuità, un “peccato originale” (per gli antichi solo gli dèi-astri potevano far funzionare o distruggere l’universo e quindi il male era estraneo alla natura), che porta allo scardinamento dell’ordine precedente. Gli antichi credevano la sfera celeste una “macina ruotante”, ove il Polo Nord (Stella Polare) fosse la boccola entro cui ruotasse il ferro del mulino, ma questa Stella Polare ogni poche migliaia di anni doveva andare fuori posto (la Polare infatti non è sempre la stessa stella) ed ecco spiegato lo scardinamento del mulino. Quindi sarebbe il tempo a trasformare i Titani o gli Asura (per gli indù) in operatori di iniquità, per avere oltrepassato il grado preordinato, creando confusione in ogni cosa (siamo così sicuri che i Titani siano solo dèi?), per cui il loro destino sarà di essere ricacciati sotto terra (nel più profondo tartaro) per essere sostituiti da nuovi reggitori dell’universo (ma in attesa di un loro eterno ritorno).

A questo punto pare interessante vedere alcuni punti fondamentali nella mitologia degli indios Cuma (America pre-colombiana). Essi ritenevano il gorgo come il collegamento fra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma molto tempo prima, vicino ad esso vi cresceva un albero in grado di dare o salvare la vita, che fu però abbattuto (lo scardinamento del mulino) e da quel giorno si è formato un vortice. Queste storie si trovano un po’ ovunque: si tratti di un albero (magari una magnifica quercia presente in molti miti) oppure di un tappo o di una pietra (come in alcune leggende ebraiche), cui fa seguito la rimozione o l’abbattimento di questo perno e la creazione di un vortice, o un fuoco, che prima non esisteva per creare un passaggio (le figure Gilgames e di Alessandro sono eroi alla ricerca di questo nuovo passaggio). In questo gorgo che scorre attraverso il mondo degli inferi si intravede la galassia, la fascia che collega il Nord (il “sopra”) con il Sud (il “sotto”), ed è la figura del fiume Eridano (o Via Lattea) che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Riprendendo il mito della caduta di Fetonte nell’Eridano, sappiamo che la dimora di Fetonte-Kronos (Saturno), decaduto sovrano dell’Età dell’Oro, si trova proprio alla confluenza di tutti i fiumi, nell’Eridano (o Nilo o Gange o Po) assopito in un sonno atemporale presso il Polo Sud celeste, ovvero Canopo.

Dal linguaggio mitologico emerge una costante, ovvero la presenza di un’Età d’Oro (un paradiso terrestre), che però si scardina e porta all’inizio del tempo, delle misure, del mulino che macina sofferenza. Questo fenomeno dovrebbe indicare la nascita della Precessione degli equinozi, il susseguirsi di un’età del mondo ad un’altra, l’allontanamento dell’eclittica dall’equatore. In questo lento, ma inesorabile scorrere del tempo in un moto circolare, gli antichi vedevano l’armonia di un mondo in cui il passato chiama il futuro e viceversa. Quindi la fine della terra non è altro che la fine di un’era, e del reggitore di quel tempo, che sarà però sostituito da nuovi dèi in un moto circolare infinito. E’ questo il mondo in cui i Greci avevano il senso di limite, di misura, in cui ogni fenomeno naturale era collegato con uomini e dèi, in cui i pitagorici avevano circoscritto a tre le scienze par excellence: il numero, la musica e l’astronomia. In questa visione la concezione indù della reincarnazione riacquista forza essendo sostenuta anche da Platone nel Timeo, dove l’umanità viene paragonata al grano che si suddivide sempre di più (inizialmente gli dèi diedero un seme dell’uomo) ed è macinata dal Mulino del Tempo.

Mi domando quale sia il destino di una civiltà, quella occidentale moderna, che da Descartes in poi ha trovato nella matematica il potere miracoloso per la conquista della materia e dello spazio come dimensione in cui meglio immedesimarsi. Questa nostra dimensione, così distante (nel senso spaziale del tempo) da quella di tempi e civiltà passate, ci ha dato la presunzione di sentirci superiori e distaccati, ma solamente in quanto distanti dal tempo per la nostra stessa concezione di tempo spaziale (che è una linea retta proiettata nell’infinito), il che puzza di arroganza, denotando la stoltezza di tutta la nostra predilezione per tutto ciò che è materia. Forse il nostro stesso paragonarci a dèi (un occidentale medio vive quasi come un re dell’antichità) ci ha reso ciechi, chiusi come siamo nei nostri teoremi di prosperità, incapaci di leggere il messaggio che gli antichi (non certo inferiori a noi dal punto di vista intellettuale) hanno conservato nei secoli, parlando di dèi presuntuosi, litigiosi e boriosi che accrescendo di numero spargevano silenziosamente iniquità e caos nell’ordine dell’eterno divenire.

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