giovedì 17 settembre 2009

Dove sono finiti i campioni del mondo?

Ogni anno il World Economic Forum stila una classifica mondiale basata sulla competitività (ovvero quell’insieme di istituzioni, politiche e fattori che determinano la produttività di un paese) delle 133 economie analizzate, utilizzando un insieme di oltre 100 dettagliati indici sull’argomento. Fermo restando il periodo di congiuntura negativa che stiamo attraversando (è attesa una contrazione del PIL mondiale, ovvero l’insieme di tutti i redditi prodotti del 2,5 %), ritengo interessante analizzare la performance dell’Italia. Ma intendo farlo non tanto dal punto di vista degli indicatori congiunturali classici (PIL, produzione industriale, indici di fiducia, etc…), ma sotto quello di indicatori strutturali, per avere così una più chiara visione di quei problemi più specifici (e delle cause!) indipendentemente dall’attuale crisi economica, insomma della nostra capacità a lungo termine di mantenere gli attuali standard di ricchezza.
Penso sia opportuno concentrarsi sulla produttività di un paese, proprio per cercare di capire la sua capacità attuale (e quindi futura) di creare reddito per i propri cittadini e quindi di determinare il tasso di rendimento degli investimenti effettuati (uno dei principali fattori che caratterizzano la crescita nel medio-lungo termine). Quando si parla di crescita nel medio – lungo termine di un’economia, occorre così tenere in considerazione un insieme di fattori, molto spesso interconnessi, quali l’educazione e la formazione, il progresso tecnologico, la stabilità macroeconomica, il buon governo, le condizioni della domanda…
Nella classifica finaledel World economic Forum l’Italia si è posizionata al 48° posto (su 133 economie, rispetto al 49° posto del 2008-2009 e al 46° del 2007-2008), dietro la Slovacchia e davanti all’India, non certo nella posizione di prestigio che ci dovrebbe spettare (presumibilmente in quanto membri del G-7). Ci troviamo infatti in un raggruppamento in cui ci sono economie in transizione del Terzo Mondo (Tunisia e Costa Rica), paesi un tempo al di là della “cortina di ferro” (Azerbaijan e Polonia) e i grandi giganti in via di sviluppo (Brasile, India, Indonesia). E’ senz’altro una posizione che ci allontana dall’Europa politica, con i paesi scandinavi ai vertici della classifica, la Germania 7°, la Francia 16° e i paesi mediterranei a noi più affini che fanno comunque meglio (Israele 27°, Spagna 33°, Portogallo 43°, unica eccezione la Grecia che si piazza 71°). E’ anche interessante notare che in questa analisi è difficile assistere a grandi sbalzi di un paese da un anno all’altro, a dimostrazione del fatto che molti dei fattori che contraddistinguono un’economia sono strutturali ed occorre quindi tempo per vedere i risultati delle politiche intraprese.

Posizione dell’Italia su 133 economie (divisi per aree specifiche)


Basic Requirements 67°
Institutions 97°
Infrastructure 59°
Macroeconomic stability 102°
Health and primary education 26°
Efficiency enhancers 46°
Higher education and training 49°
Goods market efficiency 65°
Labor market efficiency 117°
Financial market sophistication 100°
Technological readiness 39°
Market size 9°
Innovation and sophistication factors 34°
Business sophistication 20°
Innovation 50°

Andando più nel dettaglio vediamo una posizione arretrata per quanto riguarda i “basic requirements”, i requisiti base, che in un paese sviluppato si dovrebbero dare per scontati. Siamo 97° per quanto riguarda le istituzioni (“istitutions”), ovvero la cornice ove imprese, cittadini ed enti pubblici interagiscono. In quella macro-categoria rientra quindi il ruolo attivo della politica e del governo tramite la pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, della presenza o meno di corruzione, ma anche della cultura e della condotta dei propri cittadini. Ecco così che assistiamo ad una degradazione dell’ambiente competitivo italiano grazie all’inettitudine di una classe politica che sperpera denaro (siamo 121° in quest’indicatore), all’eccessiva burocrazia, alla mancanza di trasparenza del governo (109° posto), e alla corruzione che non ci ha mai abbandonato. Non dimentichiamo però le inefficienze del sistema giudiziario, dove abbiamo tempi veramente biblici per giungere ad una sentenza definitiva (128° su 133!) e la sempre più opprimente infiltrazione di organizzazioni criminali (127° posto, abbiamo battuto la Colombia dei narcotrafficanti che si è piazzata al 131° posto, non male direi…).

Altro punto dolente della nostra economia lo troviamo nella (in) stabilità macroeconomica, laddove i conti pubblici si trovano sempre più in rosso, con un debito pubblico sempre più preoccupante (al 105,8% del PIL, siamo 128° in questo indicatore) che rischia di essere un fardello troppo pesante da sopportare per la prossima generazione che dovrà lavorare (e pagare le tasse).

Gli altri indicatori mostrano risultati più “normali”: raggiungiamo il 46° posto per quanto riguarda la capacità del nostro sistema paese di incrementare l’efficienza degli operatori economici che vi agiscono (“efficiency enhancers”), ed il 34° posto per quanto riguarda la capacità di innovare e di avere un sistema produttivo sofisticato (“innovation and sophistication factors”). E’ in questi indicatori che emerge ciò che è sempre stato l’ancora di salvezze dell’Italia: il sistema imprenditoriale italiano, il “Made in Italy”, l’Italia delle PMI (Piccole Medie Imprese), l’Italia che crea, innova, che compete sui mercati internazionali. Le nostre perle sono i distretti industriali (siamo 3° in questo indicatore) che ci permettono di avere quelle interconnessioni e quella cultura peculiare che unita all’ampiezza del mercato a cui si rivolgono le nostre imprese (siamo 10° per quanto riguarda il mercato domestico e 13° per quanto riguarda il nostro export estero) hanno finora garantito un vantaggio competitivo alle nostre aziende.

Ritengo invece molto preoccupante le inefficienze che caratterizzano il nostro mercato del lavoro, introducendo profonde distorsioni che solo apparentemente vanno a beneficio dei lavoratori. Per quanto riguarda il mercato del lavoro siamo fra i più rigidi al mondo (a dispetto dell’introduzione del d.lgs 276/03 in parte attuativo del Libro Bianco di Biagi), siamo ancorati alle “conquiste sindacali” del 1970, siamo ancora fermi ad un’anacronistica difesa del posto di lavoro, che non fa altro che cementificare il mercato del lavoro a discapito di chi per la prima volta si affaccia sul mercato del lavoro. Questo sistema favorisce troppo chi ha il “posto fisso”, rendendolo praticamente irremovibile, costringendo le imprese (siamo nel 2010 e viviamo in un mondo sempre più freneticamente instabile) a scaricare tutti questi costi su chi il posto del lavoro non ce l’ha (giovani, donne, cinquantenni che hanno perso il posto del lavoro). Risultato di tutto questo è che i precari aumentano (lavoratori subordinati ma anche tutta la fascia degli pseudo lavoratori autonomi) e lo Stato, senza risorse finanziarie (ce le siamo giocate tutte negli anni ’80 ricorrendo a pioggia alla cassa integrazione, almeno per la parte che non è finita nei clientelismi e negli sprechi legalizzati) ed un minimo di coscienza, resta a guardare inerme. Penso che quello del mercato del lavoro sia uno dei temi più importanti da affrontare, occorrerebbe una riforma moderna del nostro sistema, che garantisca la tanto agognata flexicurity. Non necessariamente dovremmo guardare al modello anglosassone (con più flessibilità e meno garanzie per i lavoratori), ma potremmo indirizzarci verso un modello più affine alla nostra cultura, magari prendendo spunto dai paesi scandinavi: per quanto riguarda il processo di assunzione e licenziamento ci troviamo ingessati in un mare di regole, così vediamo che in quest’indicatore la Danimarca (dove il mercato del lavoro funziona garantendo flessibilità ed ammortizzatori sociali efficaci) è prima a pari merito con Singapore, mentre noi ce la giochiamo con Bolivia e Venezuela al 128° posto.
Altro tasto dolente è la meritocrazia, che in Italia sembra proprio non esistere, perpetuando la disastrosa fuga delle menti migliori, di chi ha le capacità ma non i mezzi, così capita che siamo 91° su 133 nella capacità di trattenere cervelli (“brain drain”), appena dietro il Ghana. Questo perché oltre alla mancanza di mezzi (basti vedere Zooppa, dinamica impresa tutta italiana vincitrice di importanti premi nella Silicon valley senza che trovasse mai un quattrino in patria, a differenza dei suoi competitors internazionali), esiste un sistema incapace di incentivare chi è più produttivo (in questo indicatore siamo al 124°) e dove le posizioni più importanti sono occupate da amici e parenti senza grandi meriti in merito (al 120° posto!).

Altro tasto dolente rimane il mercato finanziario, laddove il mercato dei capitali (Borsa Italiana) storicamente non è mai stato molto sviluppato, impedendo così un agile accesso al capitale per le imprese. Ma questa nostra peculiarità, negativa a mio avviso, dovrebbe essere controbilanciata da un sistema bancario efficiente, che garantisca un facile accesso ai capitali da parte delle nostre imprese (di norma di piccole dimensioni). Ma pare che così non sia, infatti se una nostra azienda dovesse presentarsi allo sportello di una qualsiasi banca del nostro paese, con un ottimo progetto di investimento formalizzato in un business plan, ma senza altre garanzie più o meno patrimoniali, difficilmente si vedrebbe accettare il finanziamento (in questo indicatore siamo infatti al 118° posto). Ma questo vale anche per altri aspetti legati al mercato dei capitali, con una legislazione poco incline a salvaguardare i diritti di creditori e debitori (98° posto), ed un sistema finanziario poco aperto all’entrata di investitori dall’estero (anche qui siamo al 98° posto), e dove c’è poca concorrenza interna.

Abbiamo così visto quali sono i problemi strutturali della nostra economia (e società) e direi che in tutti (o quasi) c’è lo zampino più o meno diretto della politica e di chi ci governa (e come non potrebbe esserci!). Così, afflitto da rabbia e profonda delusione per il destino del paese in cui sono nato, mi domando dove finiscano le colpe di un popolo incapace di fare il proprio interesse collettivo, e dove inizino quelle di chi (più o meno) astutamente ha saputo creare la luccicante illusione che porta un popolo intero ad eleggerli decisori della propria decadenza. Possono forse sembrare pensieri di chi è pessimista (a me sembra solo realista), ma non mi lascerò certo convincere dal prossimo imbonitore di turno che mendicherà il proprio voto in cambio del nulla, aspettando (per un po’) che gli italiani riprendano coscienza da questo coma di massa (sempre se non sarà troppo tardi).