venerdì 28 agosto 2009

Riparte l'Italia o partono gli italiani...?

Il nostro paese si trova sempre più in una condizione di declino economico (e non solo…): basti osservare la serie storica del PIL (siamo tornati ai valori del 2001) o della nostra quota nel commercio internazionale degli ultimi 10 anni, per avere conferma di questo processo di rapida discesa dall’Olimpo delle economie mondiali. Che ce ne dicano i media (basta guardare i dati Istat e confrontarli con altri paesi OCSE), e crisi a parte, questo è un processo che ci ha colpiti già da tempo, in buona parte per quei problemi strutturali del nostro paese, che ci portiamo dietro da sempre (insomma cambiano gli attori ma non il copione). Facendo una breve analisi storica della nostra economia, emerge un paese che nel Dopoguerra ha saputo risollevarsi da una diffusa condizione di arretratezza, che decide di puntare su una mercato mondiale sempre più segmentato, differenziando la propria produzione e specializzandosi sulla produzione di beni di consumo finali. E’ questa l’economia dei distretti, che negli anni ’80 portò celebri studiosi americani (come Porter) a studiarci più da vicino per cercare di capirne i segreti. E’ sorprendente ma il nostro modello aveva raggiunto ottimi risultati, riuscendo addirittura a mettere in crisi quello delle grandi multinazionali statunitensi. E così acquisimmo sui mercati esteri posizioni di vantaggio nel settore della moda, dei prodotti della casa e per uso personale, degli alimenti, con una spiccata dote per tutto ciò che andava oltre le righe, che emergeva dal tayloristico modello del tutto uniforme, standardizzato, garantendo quel di più di qualità e design, che ha affermato nel mondo il Made in Italy.

Se ci chiedessimo quali sono state le condizione per la fioritura di questo nostro vantaggio comparativo, possiamo provare a fare delle ipotesi, così non possiamo non includere un modello in cui l’imprenditorialità diffusa (il tessuto delle Piccole-Medie-Imprese che rappresentano i vari distretti) ha creato (almeno in quei settori specifici) un ambiente stimolato da una forte competitività (selezionando così una serie di soggetti che garantivano qualità e flessibilità), una marcata spinta al rinnovamento e dove le giuste competenze erano diciamo a “portata di distretto”. Ma non dimenticherei il ruolo di una domanda interna molto sofisticata, che per essere soddisfatta ha modellato le nostre imprese, preparandole così a quella che sarebbe stata in futuro una determinante essenziale di un segmento molto remunerativo della domanda mondiale (quello dei prodotti personalizzati e di alta qualità). Tutto questo combinato al fatto di essere un paese storicamente trasformatore per la mancanza di materie prime, un paese che nel Rinascimento ha fatto dei propri artigiani (come dei commercianti veneziani e genovesi) e quindi del “saper fare” la propria ricchezza, ci ha permesso così di preparare l’ambiente culturale adatto per l’economia dei distretti.

Certo, non dimentichiamo però anche i vantaggi immediati della continua svalutazione della lira italiana, gli alti deficit di bilancio che hanno gonfiato il debito pubblico, il peso dell’evasione fiscale di piccoli (e grandi) imprenditori (spesso tollerata come rimedio alla disoccupazione) ed il ruolo attivo che ha avuto lo stato nell’economia. Ma ora tutto questo non è più sostenibile, in parte perché siamo nell’Unione Europea, ed in parte perché non possiamo andare avanti continuando ad aumentare il debito pubblico.

Alcuni cambiamenti, seppur dolorosi sono obbligatori: così quelle aziende posizionate in segmenti di mercato “sbagliati” (basti pensare a gran parte del tessile) dovranno chiudere, in quanto non potranno mai reggere i prezzi (ed i costi!) della competizione dell’Est Europa, della Cina o del Vietnam. Queste sono in gran parte quelle aziende che hanno beneficiato del connubio svalutazione della lira ed evasione-elusione fiscale, che non hanno saputo riconvertire le proprie aziende, rimanendo così a fare la parte dei “cinesi d’Europa”. Le condizioni macroeconomiche non sembrano poi concedere scuse alcune (basti pensare al repentino apprezzamento dell’Euro sul Dollaro degli ultimi anni), quindi non potremo che assistere alla continua uscita dei player inefficienti da un lato e l’emergere, dall’altro, di alcune realtà che sapranno sempre meglio presentarsi come leader nel proprio distretto, riuscendo ad ottenere buoni risultati nei mercati internazionali (Tod’s, Geox, Luxottica, Technogym, etc…).

Quello che stiamo vivendo è un momento di grandi cambiamenti esterni, innescati dalla fine della grande divisione fra paesi comunisti e “democrazie occidentali”. Dall’emergere di nuove potenze politico-economiche (Cina, India, Russia, Brasile, Indonesia) a quello di nuovi ed agguerriti player in ogni mercato, dovendo poi fronteggiare poi imprevedibili fonti di instabilità (sempre nuove minacce di terrorismo, guerre e catastrofi naturali). Questo è sempre più un mondo globalizzato, dove le nostre aziende dovranno fronteggiare una situazione in cui fare business risulta essere sempre più rischioso, in cui vince chi meglio riesce ad anticipare un mondo che è in continua e rapida evoluzione. E in questo quadro ci domandiamo che cosa possono fare (spesso “non fare”) chi ci governa, i nostri rappresentanti politici, chi decide la nostra politica economica, la nostra capacità di essere competitivi.

Siamo un paese che ha un urgente bisogno di cambiamenti reali, di “sintonizzarsi” con le nuove frequenze del Terzo Millennio, necessitiamo di quelle riforme che potranno far ripartire un paese fermo, incagliato e con sempre meno energie. Mi riferisco a quella mancanza di dinamicità interna, dovuta alla contrapposizione fra chi ha una rendita, una posizione di privilegio (non certo acquisita con merito) e chi deve scegliere fra sfruttamento o emigrazione. Ecco che la mia ricetta si scandisce in quattro punti principali (in ordine di difficoltà?): maggiore competizione, un sistema giudiziario rapido ed efficiente, aprirci al mondo dell’innovazione e far ripartire l’economia del Mezzogiorno.

Per maggiore competizione dico che dovrebbe finire in Italia il partito delle rendite, dovremmo andare contro certi interessi di parte, per aprire il paese a nuove e giovani idee, italiane o straniere che siano. Dovremmo rendere il nostro sistema giuridico meno cavilloso, più aperto, permettendo a nuovi soggetti di entrare nella scena competitiva, togliere di mezzo le infondate paure e l’interesse nazionale (basti ricordare le vicende Alitalia o Telecom Italia), permettendoci di avvicinarci di più a questo nuovo mondo dinamico. Dovremmo avere un sistema maggiormente meritocratico, che non verta su diritti dinastici (farmacisti o notai ne sono un esempio) o sulle solite conoscenze, per evitare lo spreco delle nostre menti (e idee) migliori.

Un sistema giudiziario rapido ed efficiente, è quello che permette alla vita media di un procedimento giudiziario, di avere tempi normali (qualche mese, un anno, due massimo), per evitare che a chi abbia subito un torto debba aggiungersene subito un secondo.
Per avvicinarci al mondo dell’innovazione, per aumentare il livello del capitale umano, delle conoscenze, per permettere al nostro paese di aumentare la produttività del fattore lavoro, basterebbe, almeno nel breve termine, limitarsi ad importare l’innovazione, le conoscenze che già esistono, per applicarle efficacemente al nostro sistema produttivo. Per poi cercare di ottenere risultati nel medio-lungo termine, occorrerebbe investire nel capitale umano, in un sistema scolastico maggiormente meritocratico, evitando magari di trasformare le università in grandi licei (utile sarebbe mettere test all’entrata obbligatori per ogni facoltà, che non si basino sul “numero chiuso”, ma su un livello minimo di conoscenza necessario). Per cercare di produrre ricerca, dovremmo incentivare le università con premi a denaro a seconda delle pubblicazioni raggiunte in quell’anno, spingendo queste ad incentivare a sua volta chi vi lavora seriamente ed avere il coraggio di “lasciare a casa” chi non si impegna adeguatamente a fare ricerca(cambiando anche i relativi riferimenti normativi). Altro punto interessante potrebbe quello di avvicinare maggiormente pubblico e privato, università ed imprese, magari creando dei consorzi in cui partecipino capitali privati e “cervelli” pubblici, consentendo così un maggiore controllo di questi ultimi.

Ma la sfida che sembra essere più difficile è quella di far ripartire l’economia del Mezzogiorno, che richiede necessariamente condizioni base il raggiungimento dei prime tre punti discussi sopra. Storicamente uno dei più grandi errori nei confronti del Mezzogiorno è stato quello di averci dei pianificatori al governo, che assegnando questi o quei contributi, non facevano altro che distorcere l’economia locale. Così facendo si è creato un vero e proprio indotto di professionalità e burocrati che si adoperano per l’ottenimento del contributo (ma non dimentichiamo il peso della “mazzetta”), senza peraltro risolvere i problemi del Sud, limitandosi solo ad aumentare le fila dei soggetti dipendenti dai “soldi di Roma”. L’Italia (e l’Europa) dovrebbe mettere la parola fine a questa radicata distorsione, cercando piuttosto di aiutare il Meridione a prendersi maggiormente cura di sé, garantendo sì le infrastrutture necessarie (finire la Salerno-Reggio Calabria, dare dignità alle ferrovie del Mezzogiorno), ma lasciando alla libera iniziativa dei soggetti economici locali la forza del cambiamento, creando magari una “no tax area” (con aliquote fiscali nulle o ridottissime) su vasca scala. Tutto questo però non porterà mai a risultati sufficienti se non ci sarà la volontà di reagire alle numerose mafie locali, vero cancro del Mezzogiorno e sempre più pronte ad inghiottire settori “sani” dell’economia anche in altre zone d’Italia. Si tratta di un obiettivo senz’altro difficile, ma non impossibile, da combattersi soprattutto sul lato economico (basti pensare a come vengono gestiti gli appalti nel Sud italia), con la consapevolezza che anche decisioni forti e poco popolari (liberalizzazione delle droghe e della prostituzione?) potrebbero indebolire queste organizzazioni criminali.
Anche alla luce della recente crisi finanziaria, che solo apparentemente avrebbe risparmiato il nostro paese (se è vero che “l’arretratezza” del nostro sistema finanziario ha permesso alle nostre banche di cavarsela meglio di quelle inglesi e statunitensi, le nostre imprese hanno gravi problemi e rischiano seriamente di chiudere), ci accorgiamo di essere ad un importante giro di boa: cambiare mentalità e tornare ad essere competitivi, o sprofondare nel limbo in compagnia di quei paesi un tempo ricchi (come l’Argentina della Belle Epoque di fine ‘800).

giovedì 20 agosto 2009

Paura del Medioevo? Sì, quello leghista…

Rispondo a Matteo Lazzaro, che il 10 agosto 2009 manda al Corriere della Sera una lettera, in cui proclamandosi studente leghista, si vergogna dell’Unità d’Italia.

E’ innegabile che gran parte di ciò che è nato intorno al Risorgimento d’Italia, presenti gli ingredienti romanzati di chi, con ciò ha cercato di costruire un sentimento nazionale, una coscienza unitaria, che ritroviamo nei libri storici del tempo con i toni di chi si rivolge ad un pubblico di bambini ingenui. Forse l’apice della “storiella romanzata” la ritroviamo nella spedizione dei Mille, dove ci vogliono far credere che un esiguo numero di “volontari”, mal equipaggiati e poco formati riescono a liberare (conquistare?) il Regno delle Due Sicilie, forte di un esercito ordinario di 20.000 soldati. Chiaramente subentrano altri aspetti meno alla luce del sole, come le navi inglesi che puntano i cannoni verso Napoli (e sparano pure qualche colpo!), o le diserzioni di massa degli ufficiali borbonici, che guarda caso li ritroveremo poi nelle fila dell’esercito del futuro Regno d’Italia (i nostri nonni usavano dire: “soldato italiano, ed ufficiale austriaco”, a dimostrazione di quanto poco formati fossero i nostri comandanti).

Pur prendendo la distanza da un certo concetto di storia, dove forse le uniche certezze sono le date, vorrei ricordare a Lazzaro che quella dell’Unità d’Italia è stato un processo fortemente voluto, soprattutto al Nord Italia. Certo, si tratta pur sempre del ceto liberale-borghese, degli intellettuali, dei cittadini (emblematiche le Cinque Giornate del 1948 in cui i cittadini di Milano insorgono contro Radezski), ma penso che difficilmente i contadini analfabeti (il cui principale problema era la fame, non certo la libertà) avrebbero potuto insorgere contro chi gli garantiva ordine e pure una certa protezione economica. Diversa è la situazione per il Meridione, che deve subire da subito il peso dell’Unità d’Italia, che vede soffocate nel sangue ed in atroci violenze le promesse avute (Garibaldi aveva promesso l’abolizione di alcune tasse che gravavano sui ceti più umili, come la tassa sul macinato, oltre che una riforma estesa del latifondo). Pur non essendoci chiarezza nelle stime, sembra che la lotta al brigantaggio abbia fatto più morti delle tre Guerre di Indipendenza, insomma il Sud Italia alla nascita del nuovo stato non versava certo in quel clima pacifico di stabilità in cui prosperavano le industrie del Nord, ma fece da sfondo ad una vera e propria guerra civile in cui fu negata ogni dignità dell’uomo (si pensi alle persecuzioni di Cialdini o alla Legge Pica del 1863).

E’ ancora cronaca di oggi la “Questione meridionale”, le marcate differenze che sussistono tra i “due paesi”, differenze culturali, di mentalità e soprattutto, a mio avviso, istituzionali. Nel pensiero di Lazzaro e dell’ideologia della Lega del Nord (nata dal basso, dal “popolo” a differenza di chi crea e disfa un partito in nome di sé stesso), mi sembra di vedere una grande rabbia caotica contro “Roma ladrona”, contro chi percepisce una pensione di invalidità pur non essendo invalido, contro le alte tasse pagate dai lavoratori del Nord a favore dei disoccupati del Sud. Così come nell’atavica paura dell’immigrato (che arriva in Italia per rubare o spacciare droga e, se islamico per colonizzarci; mentre se lavora, bè allora sottrae il posto di lavoro ai nostri figli), a me sembra di vedere nell’ideologia leghista una certa insofferenza, una difficoltà a capire i grandi cambiamenti del mondo in cui viviamo, una preoccupante distanza dal XXI secolo, per poi aggrapparsi nelle facili argomentazioni dei vari capri espiatori.

Alcune delle argomentazioni del pensiero leghista non sono altro che ovvietà: in qualunque paese civile la discussione sul pagamento delle tasse non dovrebbe nemmeno sussistere (è più che normale che chi NON le paga commette un reato e per questo deve essere punito, senza ma e senza se). Anziché nascondersi dietro queste populistiche argomentazioni, sarebbe più opportuno cercare di capire perché tutto questo accade, quali le responsabilità di questa degradazione etico-culturale. Quali sono le responsabilità di una classe politica esosa ed incompetente, che ha portato alla proliferazione di clientelismo ed organizzazioni criminali? Perché non iniziare da ora a minare da le basi economiche della Mafia, invece di continuare a prendere consensi aumentando la presenza militari, sbandierando l’arresto di questo o quel boss (la Mafia è qualcosa di dinamico non statico, colpito un capo se ne fa un altro).

Invece l’ideologia leghista è da sempre incline all’isolamento, all’esclusione, ai dazi ai cinesi, al “calcio in culo all’islamico”, alla secessione, al no all’Europa. Senza dubbio i proseliti che tali argomentazioni stanno avendo sono sintomo di un male, di una serie di problemi più o meno nuovi del Settentrione e dell’Italia intera. Ritengo che il grande cambiamento che stiamo vivendo da un po’ di tempo sia la causa principale di questo malessere, di questa “paura” padana. Siamo in un mondo in forte e rapido cambiamento, dove negli ultimi venticinque anni abbiamo assistito al crollo del sistema basato su “freddi equlibri” che c’era prima, all’apertura senza precedenti degli scambi mondiali e alla repentina rivoluzione tecnologica (dal cellulare al web 2.0). E in questo nuovo scenario globale, l’Italia sembra essere caduta in un declino non congiunturale della propria economia, agli ultimi posti fra i paesi OCSE per gli investimenti in ricerca e sviluppo, con un debito pubblico in continuo aumento e dove le proprie imprese sono sempre meno competitive (bilancia commerciale in rosso dal 2000 e quota del nostro commercio globale che passa dal 4% del 2003 al 3,5% del 2005), questi, forse sono i veri motivi del disagio italiano (e le cause la classe politica?).

Siamo in un mondo in cui per esistere devi essere aperto, globale, connesso, dove la tolleranza verso culture diverse può essere la nostra ancora di salvezza. Se mettiamo i dazi ai cinesi, le nostre aziende tessili continueranno sì a vendere nel “piccolo” mercato italiano, ma se non si riconvertiranno subiranno comunque la concorrenza cinese nei mercati esteri e si dovranno accontentare di rimanere piccole ed inefficienti in Italia (alti prezzi, poca competizione, bassa qualità, quello che il caso Fiat dovrebbe ricordarci). Per non parlare della guerra commerciale che si creerebbe, con effetti negativi a cascata a tutte quelle aziende che esistono grazie all’export del Made in Italy in Cina (il più grande mercato del futuro). Così invece di cadere nella chiusa mentalità leghista che vorrebbe nelle scuole i dialetti, che renderebbero i nostri studenti ancora più distanti dal mondo “là fuori”, io proporrei che venisse insegnata a scuola una lingua asiatica, magari proprio il cinese. Creando scambi bilaterali potremmo fare insegnare l’italiano in Cina, avvicinando le due culture e magari anche i gusti dei consumatori (60 milioni contro 1 miliardo e 300 milioni: indovinate chi ci guadagnerebbe).

Lazzaro teme che l’Italia di domani non abbia più nulla di italiano, perché l’orda barbarica di culture nuove avrà cancellato la nostra “memoria storica”. Io vedo invece la possibilità di un forte arricchimento culturale reciproco, dove la nostra cultura uscirà dai confini nazionali insieme all’Italian Style e al Made in Italy, e dove noi potremmo aggiungere alla nostra cultura (peraltro in continuo movimento e non qualcosa di statico come vorrebbero i cultori dell’arretratezza) la conoscenza di altre culture (la vera forza e ricchezza dei Romani forse era proprio in questo atteggiamento mentale di apertura verso culture e religioni differenti). A me fanno paura questi leghisti, ho paura della loro chiusura mentale che ci potrebbe sì far scivolare in un nuovo Medioevo.

mercoledì 12 agosto 2009

Perchè perdere tempo a leggere vecchi miti...?

Che cosa rappresenta il mito oggi, nel XXI secolo? E’ forse solo una cozzaglia di racconti e fiabe senza un senso per noi uomini “evoluti”? Si tratta forse di una sorta di commedia per intrattenere gli uomini del tempo?

Quello che cercherò di analizzare è una serie di profonde analogie che attraversano praticamente tutti i miti antichi, spaziando dalle civiltà del Medio Oriente, alll’Islanda, alla Polinesia, all’Africa fino all’America pre-colombiana. Partiamo dall’immagine del diluvio, presente ovunque ed in qualsiasi civiltà (anche lontana dalle coste!), ma con dimensioni universale solo nei racconti biblici, sumerici e babilonesi. Così il dotto, addolcito studioso moderno parte alla ricerca di evidenze storico-geografiche che diano concretezza a quest’immagine catastrofica, ricercandovi magari catastrofi passate, senza accorgersi del vero significato di questi racconti.

Quello che il mito (strumento e linguaggio alquanto ambiguo) rappresenta, è invece un’immagine cosmologica, di ciò che sta “al di sopra” e non potrà mai spiegare gli eventi storici, od avere evidenze geografiche. Infatti gli antichi utilizzavano questi racconti come veicolo di una conoscenza superiore, usavano metafore semplici e concrete perché anche il volgo ne parlasse, se ne appassionasse e ne serbasse memoria, senza peraltro carpirne il vero significato cosmologico, intimo segreto di un’elite di grandi conoscitori dei meccanismi dell’universo.

In queste metafore troviamo la terra come il piano ideale passante per l’eclittica, dove l’equatore divide a metà lo zodiaco che è inclinato rispetto ad esso di 23,27 gradi. Così la fascia settentrionale dello zodiaco (ovvero quella che va dall’equinozio primaverile a quello autunnale) è detta terra emersa, mentre quella meridionale è il mare. Gli antichi sapevano che i punti equinoziali si spostano lungo l’eclittica in direzione opposta a quella del sole, questo perché l’asse terrestre non si mantiene parallelo a sé stesso durante il giro attorno al sole, descrivendo nel cielo un cerchio attorno al polo dell’eclittica. Questo fenomeno è il moto della precessione degli equinozi, che ha una durata di circa 26.000 anni, diviso in 12 ere o età del mondo, a seconda di qual è la costellazione zodiacale che sorge immediatamente prima del sole all’equinozio di primavera, segnandovi il posto dove il sole dovrà sostare. Per questo motivo questa costellazione viene chiamata “portatrice del sole” o “principale pilastro del cielo”. Così capiamo che quando i cinesi consideravano la terra come “quadratica”, non si riferivano più alla terra in senso fisico-spaziale, ma ai 4 punti (i 2 solstizi e i 2 equinozi) dominati da una costellazione. Quella costellazione avrebbe quindi retto il sole, sorgendo all’equinozio primaverile, per circa 2200 anni, per poi finire il proprio tempo con l’immagine di una terra che sarebbe sprofondata nelle acque (la fascia meridionale) e la nascita, sempre dall’acqua di una nuova terra. Questo dovrebbe permettere di capire meglio il Mito di Deucalione, una sorta di Noè che costruisce un’imbarcazione per salvarsi dai 9 giorni di diluvio che si abbattono sulla Grecia per volere di Zeus, oppure la Profezia della Sibila (anche qui finisce una terra e ne sorge una nuova dalle acque), insomma la costante è la rinascita di una nuova terra (nuova età) dal mare.

Il susseguirsi di un’era del mondo ad un’altra ha però moto contrario rispetto al ciclo del sole, così nei secoli siamo passati dall’era del Toro a quella dell’Ariete (quando Mosè si scaglia contro il suo popolo che danza intorno al vitello d’oro o toro rappresentante un’era ormai terminata, per portarne una nuova discendendo dal Sinai incoronato con le “due corna” dell’Ariete), e dall’era dell’Ariete a quella dei Pesci, dove ci troviamo tutt’ora. E qui si parla di Cristo, detto anche il Pesce (i primi cristiani usavano il pesce come simbolo delle loro riunioni), così quando Virgilio, considerato addirittura un pre-cristiano da alcuni studiosi, saluta la nuova età con l’espressione “nasce di nuovo una grande serie di secoli”, dimostra un’attenta conoscenza astronomica. Così scopriamo che il 6 A.C. (anno in cui viene fatta cadere la nascita di Cristo) è l’anno della grande congiunzione di Saturno e Giove nei Pesci (la stella cometa?), oltre che il grande ritorno della Vergine nell’equinozio autunnale. Tutto questo dimostra il significato ultimo che gli antichi davano alla lettura del mito, come enigma in cui leggervi i grandi cicli del Tempo, da cui interpretare i voleri divini e come mezzo di diffusione di un’attenta conoscenza.

Partendo dalla storia di Saxo Grammaticus, che ha ispirato Shakespeare nel racconto di Amleto, troviamo due analogie con il mito islandese: la prima è il riferimento al personaggio Orvendel (il padre di Amleto), la seconda è un passaggio del racconto in cui il mare viene definito Mulino di Amloði. Quindi Saxo si riferisce chiaramente a quel mito islandese, dove si narra di un certo Fròði, proprietario di un enorme mulino, che si era procurato due fanciulle gigantesche, Fenja e Menja, per far funzionare il suo Grotti (il mulino), dalla cui macina uscivano oro, pace e felicità. Ma l’avidità di Fròði, che costringe le due fanciulle a lavorare giorno e notte, porterà queste a ribellarsi al loro destino e a cantare una profezia, che avverandosi farà uscire dal mulino un esercito di soldati che comandati dal Re del Mare uccideranno Fròði. Ma il Re del Mare, portato il Grotti sulla propria nave obbliga le due fanciulle a tornare al lavoro, ma questa volta dal Grotti uscirà sale per poi sprofondare nella notte negli abissi del mare. Da allora nel mare si trova un gorgo dove l’acqua precipita dentro il foro della macina di questo mulino.

Lo schema di questo mito si trova in molte altre culture, e tratta sempre di un inizio, un’Età dell’Oro, a cui però farà seguito una catastrofe, una discontinuità, un “peccato originale” (per gli antichi solo gli dèi-astri potevano far funzionare o distruggere l’universo e quindi il male era estraneo alla natura), che porta allo scardinamento dell’ordine precedente. Gli antichi credevano la sfera celeste una “macina ruotante”, ove il Polo Nord (Stella Polare) fosse la boccola entro cui ruotasse il ferro del mulino, ma questa Stella Polare ogni poche migliaia di anni doveva andare fuori posto (la Polare infatti non è sempre la stessa stella) ed ecco spiegato lo scardinamento del mulino. Quindi sarebbe il tempo a trasformare i Titani o gli Asura (per gli indù) in operatori di iniquità, per avere oltrepassato il grado preordinato, creando confusione in ogni cosa (siamo così sicuri che i Titani siano solo dèi?), per cui il loro destino sarà di essere ricacciati sotto terra (nel più profondo tartaro) per essere sostituiti da nuovi reggitori dell’universo (ma in attesa di un loro eterno ritorno).

A questo punto pare interessante vedere alcuni punti fondamentali nella mitologia degli indios Cuma (America pre-colombiana). Essi ritenevano il gorgo come il collegamento fra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma molto tempo prima, vicino ad esso vi cresceva un albero in grado di dare o salvare la vita, che fu però abbattuto (lo scardinamento del mulino) e da quel giorno si è formato un vortice. Queste storie si trovano un po’ ovunque: si tratti di un albero (magari una magnifica quercia presente in molti miti) oppure di un tappo o di una pietra (come in alcune leggende ebraiche), cui fa seguito la rimozione o l’abbattimento di questo perno e la creazione di un vortice, o un fuoco, che prima non esisteva per creare un passaggio (le figure Gilgames e di Alessandro sono eroi alla ricerca di questo nuovo passaggio). In questo gorgo che scorre attraverso il mondo degli inferi si intravede la galassia, la fascia che collega il Nord (il “sopra”) con il Sud (il “sotto”), ed è la figura del fiume Eridano (o Via Lattea) che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Riprendendo il mito della caduta di Fetonte nell’Eridano, sappiamo che la dimora di Fetonte-Kronos (Saturno), decaduto sovrano dell’Età dell’Oro, si trova proprio alla confluenza di tutti i fiumi, nell’Eridano (o Nilo o Gange o Po) assopito in un sonno atemporale presso il Polo Sud celeste, ovvero Canopo.

Dal linguaggio mitologico emerge una costante, ovvero la presenza di un’Età d’Oro (un paradiso terrestre), che però si scardina e porta all’inizio del tempo, delle misure, del mulino che macina sofferenza. Questo fenomeno dovrebbe indicare la nascita della Precessione degli equinozi, il susseguirsi di un’età del mondo ad un’altra, l’allontanamento dell’eclittica dall’equatore. In questo lento, ma inesorabile scorrere del tempo in un moto circolare, gli antichi vedevano l’armonia di un mondo in cui il passato chiama il futuro e viceversa. Quindi la fine della terra non è altro che la fine di un’era, e del reggitore di quel tempo, che sarà però sostituito da nuovi dèi in un moto circolare infinito. E’ questo il mondo in cui i Greci avevano il senso di limite, di misura, in cui ogni fenomeno naturale era collegato con uomini e dèi, in cui i pitagorici avevano circoscritto a tre le scienze par excellence: il numero, la musica e l’astronomia. In questa visione la concezione indù della reincarnazione riacquista forza essendo sostenuta anche da Platone nel Timeo, dove l’umanità viene paragonata al grano che si suddivide sempre di più (inizialmente gli dèi diedero un seme dell’uomo) ed è macinata dal Mulino del Tempo.

Mi domando quale sia il destino di una civiltà, quella occidentale moderna, che da Descartes in poi ha trovato nella matematica il potere miracoloso per la conquista della materia e dello spazio come dimensione in cui meglio immedesimarsi. Questa nostra dimensione, così distante (nel senso spaziale del tempo) da quella di tempi e civiltà passate, ci ha dato la presunzione di sentirci superiori e distaccati, ma solamente in quanto distanti dal tempo per la nostra stessa concezione di tempo spaziale (che è una linea retta proiettata nell’infinito), il che puzza di arroganza, denotando la stoltezza di tutta la nostra predilezione per tutto ciò che è materia. Forse il nostro stesso paragonarci a dèi (un occidentale medio vive quasi come un re dell’antichità) ci ha reso ciechi, chiusi come siamo nei nostri teoremi di prosperità, incapaci di leggere il messaggio che gli antichi (non certo inferiori a noi dal punto di vista intellettuale) hanno conservato nei secoli, parlando di dèi presuntuosi, litigiosi e boriosi che accrescendo di numero spargevano silenziosamente iniquità e caos nell’ordine dell’eterno divenire.

lunedì 10 agosto 2009

Inizio

Oggi ho deciso di aprire questo spazio a chiunque voglia curiosare sui miei interessi, a chiunque voglia discutere di qulsivoglia argomento, che cercherò di affrontare con una cadenza più o meno settimanale!

Il mio punto di vista cercherà conforto in questo spazio, nato per l'esigenza di spazzare via tutte queste ovvie raccomandazioni da buon moralista che si leggono troppo spesso in giro...