sabato 16 ottobre 2010


Il tema è sempre lo stesso, l’Italia.
Quello che mi porta a scrivere dell’Italia è sempre il solito motivo, quello che ormai mi ripeto a noia ogni volta che penso al mio paese (ancora di più quando si vive all’estero e si ricevono le lunghe onde a distanza del gossip della politica italiana), ovvero che ci ritroviamo in un paese sempre più periferico e sempre più in declino. E’ un declino economico prima di tutto, racconto di questo perché è quello che forse meglio posso cogliere e capire, ma pur non essendo abbastanza preparato negli altri campi, non mi sembra che si sita vivendo un secondo Rinascimento della cultura italiana. E’ una cosa che possono constatare tutti, facendo una piccola prova, intervistando 10 persone prese a caso che nel giorno delle elezioni si recano alle urne, oppure la sera che tornano dal lavoro, su temi che dovrebbero conoscere: non so, la nostra storia, la geografia, la costituzione italiana, il diritto pubblico italiano, insomma tutto ciò che ha a che fare con il così detto senso civico. Se poi invece volete saggiare la famosissima cultura italiana, bè allora bastano 10 minuti di televisione per fare il pieno di scorie radioattive, di buffoni che non fanno ridere, di fango secco, del nulla che si autoproclama vincitore del nostro paese. Comunque potrei essere troppo pessimista e vi giuro, che quando torno in Italia vado col questionario a fare le interviste e poi pubblicherò i risultati: uno statistico potrebbe dirmi che c’è un bias enorme, che manca una lista di campionamento, ha perfettamente ragione, ma sempre e comunque di italiani che hanno il diritto di voto si tratta!
Per quanto riguarda il campo economico i dati parlano chiaro, penso che sia sufficiente mostrare quelli (se le fonti sono attendibili, ed in questo caso ovviamente lo sono), per rendersi conto di quale sia la situazione del nostro paese. Se poi si facesse lo stesso a livello comparativon con le altre economie, bè allora i dolori sarebbero ancora più grandi…C’è poco da fare, in un mondo in cui quasi tutti i paesi crescono o comunque seguono trend di lungo termine di buona crescita, il nostro paese si ferma, ristagna, e questo risultato lo abbiamo raggiunto in epoca pre-crisi 2008; basta vedersi la serie storica del Pil (l’insieme di tutti i redditi prodotti nel paese) degli ultimi 10-20 anni e metterla a confronto con altri paesi per avere già una panoramica dello stato di salute della nostra economia. Appunto dicevo lo stato precedente della crisi del 2008, perché se si osserva come il nostro paese reagisce dopo la crisi finanziaria del 2008, bè allora anche in questo caso i dati parlano chiaro: arranchiamo, perdiamo competitività, diventiamo sempre più periferici.
In un paese dove la forza, l’unica grande forza si troverebbe nella struttura produttiva delle ormai blasonatissime PMI (Piccole-Medie Imprese), dei “chimerici” distretti, così ci ripetono da sempre tutti, quindi la produzione manifatturiera, bene sappiate che la produzione industriale italiana dopo la crisi è crollata ai livelli degli anni ’80, per poi riportarsi intorno a quelli dell’inizio degli anni ’90 verso giugno del 2010. Mancano alcuni mesi, però non penso che da luglio ad oggi sia cambiato granchè (e non è cambiato infatti!). Quindi abbiamo, così, in un batter d’occhio perso la produzione industriale di 20 anni, siamo tornati all’inizio degli anni ’90, in pieno clima tangentopoli, con il magnifico debito pubblico pronto ad implodere (grazie ai simpatici socialisti della “Milano da Bere” degli anni ’80) che è ovviamente rimasto tale nonostante le grandi privatizzazioni dei governi di centro-sinistra italiani degli anni ’90 (sarà un’anomalia tutta italiana che a parte qualche rara eccezione tutte le privatizzazioni le abbiano fatte persone che un tempo militavano nel PC?), e nonostante l’entrata nell’euro abbia ricordato ai ministri dell’economia che esiste un limite alla spesa pubblica e che dovremmo tenere conto del deficit/Pil…

L’altro dato che non mi stanco mai di ripetere è il più sconosciuto dai media tasso di occupazione, che a differenza del tasso di disoccupazione (che mostra quante persone in percentuale negli ultimi 20 giorni hanno cercato attivamente lavoro non trovandolo, rispetto alla forza lavoro, ovvero a chi è dentro il mercato del lavoro perché lavora o vorrebbe lavorare) racconta tutta un’altra storia, perché dice quante sono le persone in percentuale che lavorano rispetto a chi potrebbe lavorare (popolazione 16-64). Bene, il nostro tasso di occuapazione per il 2009 (dati Eurostat) si attesta al 57,5%, contro il 59,8% della Spagna (che pure ha un tasso di disoccupazione intorno al 20%), il 64,7% dell’Area Euro ed il 70,9% della Germania. Questa differenza dipende da molti fattori, ma penso che duen siano quelli da tenere in maggior considerazione: il basso tasso di occupazione femminile italiano, soprattutto nel Meridione, la parte della popolazione che scoraggiata non ha cercato lavoro (attivamente) negli ultimi 20 giorni (da manuale di macroeconomia, chi saranno: bamboccioni, figli di papà, neolaureati che non vogliono lavorare nei call center, quarantenni che hanno perso le speranze di tornare nel mercato del lavoro?).
Infine l’altro grande problema economico dell’Italia è la bassa produttività del lavoro, che è poi ciò che porta ad avere stipendi medi più bassi della media europea e la cui causa si può ricercare nelle piccole dimensioni delle nostre imprese (non si capisce mai se è un bene o un male avere tutte queste PMI, è un bene perché ci raccontano che sono flessibili e ben si adattano ai cambiamenti, come con la crisi del 2008 dove la produzione industriale, caso unico fra i paesi più sviluppati, è tornata ai livelli di più di 20 anni fa). Ma ci potremmo domandare quale la causa del nanismo delle nostre imprese, dell’esercito di partite iva che la GDF deve fronteggiare ogni anno (che sia quello il motivo per cui ogni anno unico caso nei paesi OCSE, il nostro PIL viene moltiplicato per 1,2 perché abbiamo un’economia nera enorme, che sia quello il motivo per cui l’evasione fiscale è la più alta fra i paesi sviluppati?). Senz’altro sono molteplici le cause, personalmente penso che un paese dovrebbe avere una forza lavoro istruita e formata(quant’è la percentuale di laureati sul totale della popolazione? Sbaglio o anche qui facciamo a gara con Grecia e Portogallo nell’UE?), quando penso ad un modello economico vincente penso a quello dei Paesi Scandinavi, dove grazie a forti istituzioni e ad un sistema scolastico e universitario basato sul merito, hanno creato un’economia che cresce e sa fronteggiare adeguatamente l’ultima frontiera tecnologica.
Sulle cause profonde di questo declino economico e socio-culturale il colpevole, il cattivo a cui puntare l’indice (anche il dito medio, tanto loro lo fanno tutti i giorni con noi tutti) è LA POLITICA ITALIANA, su chi non fa niente per cambiare questo, su chi dovrebbe decidere le nostre sorti perché incaricato da un mandato dei cittadini (democrazia). Su questo non c’è alcun dubbio, per com’è stata gestita l’Italia a partire dagli anni ’80, per tutte le enormi balle che ci hanno raccontato mentre cercavano di arraffare più che potevano, come gigantesche piovre, mentre con paziente lavoro si sono appropriati prima delle nostre tasse, poi dei nostri spazi, poi del nostro etere, poi dei nostri cervelli, e per ultimo della nostra dignità, credendoci burattini: e alla fine siamo diventati (o meglio siete diventati) burattini…Ricordate la storia dell’intervista, appena rimetto piede in Italia lo faccio davvero…E pubblico i dati! Poi ci facciamo delle belle risate…
Non voglio certo perdere tutta la mia vita per cercare di spodestare tutto il marcio che si è infiltrato nel mio paese, questa moltitudine di brillanti scarafaggi che corrono per i palazzi del potere italiano (non tutti, intendiamoci, ho ancora fiducia in qualche istituzione). Ma qualcosa voglio provare a fare, in quanto cittadino italiano dotato di una propria coscienza, faccio appello a quella parte degli italiani che si sono accorti di tutto questo…
Appoggio senza se e senza ma la lotta di Grillo contro giornali e partiti politici, per un semplice motivo, si reggono in piedi coi soldi pubblici e non c’è nessuno che li possa valutare, sono loro stessi che si autofinanziano, si autocriticano, fanno tutto da soli con noi poveri idioti a fare da spettatori passivi…Sono modelli falliti perché non si reggono sulle proprie gambe, ma riescono a vivere dell’ignoranza e dello status quo delle persone…Bene, io penso che un forte vento dovrebbe spazzare dall’Italia tutto questo, io sono pronto ad affrontare questa sfida, c’è qualcun altro che la pensa come me??

venerdì 15 ottobre 2010

L'eterno ritorno...

Eccomi ritornato a scrivere su questo blog.....

E' passato più di un anno dall'ultimo post e tante cose sono successe, chi mi conosce sa che non sono più quello, che la cosa peggiore che potesse succedere è accaduta.

Scrivere e condividere i proprio pensieri, le proprie considerazioni...I propri stati d'animo..Porta via tempo e quindi potrei farne anche a meno, e forse lo farò, però è la rabbia che mi spinge a farlo, la rabbia nel vedere che l'Italia continua imperterrita la sua corsa all'involuzione... O cambia l'Italia o me ne vado, questa è la sfida che vorrei lanciare, e mi piacerebbe che fossero in tanti a pensarla come me!

giovedì 17 settembre 2009

Dove sono finiti i campioni del mondo?

Ogni anno il World Economic Forum stila una classifica mondiale basata sulla competitività (ovvero quell’insieme di istituzioni, politiche e fattori che determinano la produttività di un paese) delle 133 economie analizzate, utilizzando un insieme di oltre 100 dettagliati indici sull’argomento. Fermo restando il periodo di congiuntura negativa che stiamo attraversando (è attesa una contrazione del PIL mondiale, ovvero l’insieme di tutti i redditi prodotti del 2,5 %), ritengo interessante analizzare la performance dell’Italia. Ma intendo farlo non tanto dal punto di vista degli indicatori congiunturali classici (PIL, produzione industriale, indici di fiducia, etc…), ma sotto quello di indicatori strutturali, per avere così una più chiara visione di quei problemi più specifici (e delle cause!) indipendentemente dall’attuale crisi economica, insomma della nostra capacità a lungo termine di mantenere gli attuali standard di ricchezza.
Penso sia opportuno concentrarsi sulla produttività di un paese, proprio per cercare di capire la sua capacità attuale (e quindi futura) di creare reddito per i propri cittadini e quindi di determinare il tasso di rendimento degli investimenti effettuati (uno dei principali fattori che caratterizzano la crescita nel medio-lungo termine). Quando si parla di crescita nel medio – lungo termine di un’economia, occorre così tenere in considerazione un insieme di fattori, molto spesso interconnessi, quali l’educazione e la formazione, il progresso tecnologico, la stabilità macroeconomica, il buon governo, le condizioni della domanda…
Nella classifica finaledel World economic Forum l’Italia si è posizionata al 48° posto (su 133 economie, rispetto al 49° posto del 2008-2009 e al 46° del 2007-2008), dietro la Slovacchia e davanti all’India, non certo nella posizione di prestigio che ci dovrebbe spettare (presumibilmente in quanto membri del G-7). Ci troviamo infatti in un raggruppamento in cui ci sono economie in transizione del Terzo Mondo (Tunisia e Costa Rica), paesi un tempo al di là della “cortina di ferro” (Azerbaijan e Polonia) e i grandi giganti in via di sviluppo (Brasile, India, Indonesia). E’ senz’altro una posizione che ci allontana dall’Europa politica, con i paesi scandinavi ai vertici della classifica, la Germania 7°, la Francia 16° e i paesi mediterranei a noi più affini che fanno comunque meglio (Israele 27°, Spagna 33°, Portogallo 43°, unica eccezione la Grecia che si piazza 71°). E’ anche interessante notare che in questa analisi è difficile assistere a grandi sbalzi di un paese da un anno all’altro, a dimostrazione del fatto che molti dei fattori che contraddistinguono un’economia sono strutturali ed occorre quindi tempo per vedere i risultati delle politiche intraprese.

Posizione dell’Italia su 133 economie (divisi per aree specifiche)


Basic Requirements 67°
Institutions 97°
Infrastructure 59°
Macroeconomic stability 102°
Health and primary education 26°
Efficiency enhancers 46°
Higher education and training 49°
Goods market efficiency 65°
Labor market efficiency 117°
Financial market sophistication 100°
Technological readiness 39°
Market size 9°
Innovation and sophistication factors 34°
Business sophistication 20°
Innovation 50°

Andando più nel dettaglio vediamo una posizione arretrata per quanto riguarda i “basic requirements”, i requisiti base, che in un paese sviluppato si dovrebbero dare per scontati. Siamo 97° per quanto riguarda le istituzioni (“istitutions”), ovvero la cornice ove imprese, cittadini ed enti pubblici interagiscono. In quella macro-categoria rientra quindi il ruolo attivo della politica e del governo tramite la pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, della presenza o meno di corruzione, ma anche della cultura e della condotta dei propri cittadini. Ecco così che assistiamo ad una degradazione dell’ambiente competitivo italiano grazie all’inettitudine di una classe politica che sperpera denaro (siamo 121° in quest’indicatore), all’eccessiva burocrazia, alla mancanza di trasparenza del governo (109° posto), e alla corruzione che non ci ha mai abbandonato. Non dimentichiamo però le inefficienze del sistema giudiziario, dove abbiamo tempi veramente biblici per giungere ad una sentenza definitiva (128° su 133!) e la sempre più opprimente infiltrazione di organizzazioni criminali (127° posto, abbiamo battuto la Colombia dei narcotrafficanti che si è piazzata al 131° posto, non male direi…).

Altro punto dolente della nostra economia lo troviamo nella (in) stabilità macroeconomica, laddove i conti pubblici si trovano sempre più in rosso, con un debito pubblico sempre più preoccupante (al 105,8% del PIL, siamo 128° in questo indicatore) che rischia di essere un fardello troppo pesante da sopportare per la prossima generazione che dovrà lavorare (e pagare le tasse).

Gli altri indicatori mostrano risultati più “normali”: raggiungiamo il 46° posto per quanto riguarda la capacità del nostro sistema paese di incrementare l’efficienza degli operatori economici che vi agiscono (“efficiency enhancers”), ed il 34° posto per quanto riguarda la capacità di innovare e di avere un sistema produttivo sofisticato (“innovation and sophistication factors”). E’ in questi indicatori che emerge ciò che è sempre stato l’ancora di salvezze dell’Italia: il sistema imprenditoriale italiano, il “Made in Italy”, l’Italia delle PMI (Piccole Medie Imprese), l’Italia che crea, innova, che compete sui mercati internazionali. Le nostre perle sono i distretti industriali (siamo 3° in questo indicatore) che ci permettono di avere quelle interconnessioni e quella cultura peculiare che unita all’ampiezza del mercato a cui si rivolgono le nostre imprese (siamo 10° per quanto riguarda il mercato domestico e 13° per quanto riguarda il nostro export estero) hanno finora garantito un vantaggio competitivo alle nostre aziende.

Ritengo invece molto preoccupante le inefficienze che caratterizzano il nostro mercato del lavoro, introducendo profonde distorsioni che solo apparentemente vanno a beneficio dei lavoratori. Per quanto riguarda il mercato del lavoro siamo fra i più rigidi al mondo (a dispetto dell’introduzione del d.lgs 276/03 in parte attuativo del Libro Bianco di Biagi), siamo ancorati alle “conquiste sindacali” del 1970, siamo ancora fermi ad un’anacronistica difesa del posto di lavoro, che non fa altro che cementificare il mercato del lavoro a discapito di chi per la prima volta si affaccia sul mercato del lavoro. Questo sistema favorisce troppo chi ha il “posto fisso”, rendendolo praticamente irremovibile, costringendo le imprese (siamo nel 2010 e viviamo in un mondo sempre più freneticamente instabile) a scaricare tutti questi costi su chi il posto del lavoro non ce l’ha (giovani, donne, cinquantenni che hanno perso il posto del lavoro). Risultato di tutto questo è che i precari aumentano (lavoratori subordinati ma anche tutta la fascia degli pseudo lavoratori autonomi) e lo Stato, senza risorse finanziarie (ce le siamo giocate tutte negli anni ’80 ricorrendo a pioggia alla cassa integrazione, almeno per la parte che non è finita nei clientelismi e negli sprechi legalizzati) ed un minimo di coscienza, resta a guardare inerme. Penso che quello del mercato del lavoro sia uno dei temi più importanti da affrontare, occorrerebbe una riforma moderna del nostro sistema, che garantisca la tanto agognata flexicurity. Non necessariamente dovremmo guardare al modello anglosassone (con più flessibilità e meno garanzie per i lavoratori), ma potremmo indirizzarci verso un modello più affine alla nostra cultura, magari prendendo spunto dai paesi scandinavi: per quanto riguarda il processo di assunzione e licenziamento ci troviamo ingessati in un mare di regole, così vediamo che in quest’indicatore la Danimarca (dove il mercato del lavoro funziona garantendo flessibilità ed ammortizzatori sociali efficaci) è prima a pari merito con Singapore, mentre noi ce la giochiamo con Bolivia e Venezuela al 128° posto.
Altro tasto dolente è la meritocrazia, che in Italia sembra proprio non esistere, perpetuando la disastrosa fuga delle menti migliori, di chi ha le capacità ma non i mezzi, così capita che siamo 91° su 133 nella capacità di trattenere cervelli (“brain drain”), appena dietro il Ghana. Questo perché oltre alla mancanza di mezzi (basti vedere Zooppa, dinamica impresa tutta italiana vincitrice di importanti premi nella Silicon valley senza che trovasse mai un quattrino in patria, a differenza dei suoi competitors internazionali), esiste un sistema incapace di incentivare chi è più produttivo (in questo indicatore siamo al 124°) e dove le posizioni più importanti sono occupate da amici e parenti senza grandi meriti in merito (al 120° posto!).

Altro tasto dolente rimane il mercato finanziario, laddove il mercato dei capitali (Borsa Italiana) storicamente non è mai stato molto sviluppato, impedendo così un agile accesso al capitale per le imprese. Ma questa nostra peculiarità, negativa a mio avviso, dovrebbe essere controbilanciata da un sistema bancario efficiente, che garantisca un facile accesso ai capitali da parte delle nostre imprese (di norma di piccole dimensioni). Ma pare che così non sia, infatti se una nostra azienda dovesse presentarsi allo sportello di una qualsiasi banca del nostro paese, con un ottimo progetto di investimento formalizzato in un business plan, ma senza altre garanzie più o meno patrimoniali, difficilmente si vedrebbe accettare il finanziamento (in questo indicatore siamo infatti al 118° posto). Ma questo vale anche per altri aspetti legati al mercato dei capitali, con una legislazione poco incline a salvaguardare i diritti di creditori e debitori (98° posto), ed un sistema finanziario poco aperto all’entrata di investitori dall’estero (anche qui siamo al 98° posto), e dove c’è poca concorrenza interna.

Abbiamo così visto quali sono i problemi strutturali della nostra economia (e società) e direi che in tutti (o quasi) c’è lo zampino più o meno diretto della politica e di chi ci governa (e come non potrebbe esserci!). Così, afflitto da rabbia e profonda delusione per il destino del paese in cui sono nato, mi domando dove finiscano le colpe di un popolo incapace di fare il proprio interesse collettivo, e dove inizino quelle di chi (più o meno) astutamente ha saputo creare la luccicante illusione che porta un popolo intero ad eleggerli decisori della propria decadenza. Possono forse sembrare pensieri di chi è pessimista (a me sembra solo realista), ma non mi lascerò certo convincere dal prossimo imbonitore di turno che mendicherà il proprio voto in cambio del nulla, aspettando (per un po’) che gli italiani riprendano coscienza da questo coma di massa (sempre se non sarà troppo tardi).

venerdì 28 agosto 2009

Riparte l'Italia o partono gli italiani...?

Il nostro paese si trova sempre più in una condizione di declino economico (e non solo…): basti osservare la serie storica del PIL (siamo tornati ai valori del 2001) o della nostra quota nel commercio internazionale degli ultimi 10 anni, per avere conferma di questo processo di rapida discesa dall’Olimpo delle economie mondiali. Che ce ne dicano i media (basta guardare i dati Istat e confrontarli con altri paesi OCSE), e crisi a parte, questo è un processo che ci ha colpiti già da tempo, in buona parte per quei problemi strutturali del nostro paese, che ci portiamo dietro da sempre (insomma cambiano gli attori ma non il copione). Facendo una breve analisi storica della nostra economia, emerge un paese che nel Dopoguerra ha saputo risollevarsi da una diffusa condizione di arretratezza, che decide di puntare su una mercato mondiale sempre più segmentato, differenziando la propria produzione e specializzandosi sulla produzione di beni di consumo finali. E’ questa l’economia dei distretti, che negli anni ’80 portò celebri studiosi americani (come Porter) a studiarci più da vicino per cercare di capirne i segreti. E’ sorprendente ma il nostro modello aveva raggiunto ottimi risultati, riuscendo addirittura a mettere in crisi quello delle grandi multinazionali statunitensi. E così acquisimmo sui mercati esteri posizioni di vantaggio nel settore della moda, dei prodotti della casa e per uso personale, degli alimenti, con una spiccata dote per tutto ciò che andava oltre le righe, che emergeva dal tayloristico modello del tutto uniforme, standardizzato, garantendo quel di più di qualità e design, che ha affermato nel mondo il Made in Italy.

Se ci chiedessimo quali sono state le condizione per la fioritura di questo nostro vantaggio comparativo, possiamo provare a fare delle ipotesi, così non possiamo non includere un modello in cui l’imprenditorialità diffusa (il tessuto delle Piccole-Medie-Imprese che rappresentano i vari distretti) ha creato (almeno in quei settori specifici) un ambiente stimolato da una forte competitività (selezionando così una serie di soggetti che garantivano qualità e flessibilità), una marcata spinta al rinnovamento e dove le giuste competenze erano diciamo a “portata di distretto”. Ma non dimenticherei il ruolo di una domanda interna molto sofisticata, che per essere soddisfatta ha modellato le nostre imprese, preparandole così a quella che sarebbe stata in futuro una determinante essenziale di un segmento molto remunerativo della domanda mondiale (quello dei prodotti personalizzati e di alta qualità). Tutto questo combinato al fatto di essere un paese storicamente trasformatore per la mancanza di materie prime, un paese che nel Rinascimento ha fatto dei propri artigiani (come dei commercianti veneziani e genovesi) e quindi del “saper fare” la propria ricchezza, ci ha permesso così di preparare l’ambiente culturale adatto per l’economia dei distretti.

Certo, non dimentichiamo però anche i vantaggi immediati della continua svalutazione della lira italiana, gli alti deficit di bilancio che hanno gonfiato il debito pubblico, il peso dell’evasione fiscale di piccoli (e grandi) imprenditori (spesso tollerata come rimedio alla disoccupazione) ed il ruolo attivo che ha avuto lo stato nell’economia. Ma ora tutto questo non è più sostenibile, in parte perché siamo nell’Unione Europea, ed in parte perché non possiamo andare avanti continuando ad aumentare il debito pubblico.

Alcuni cambiamenti, seppur dolorosi sono obbligatori: così quelle aziende posizionate in segmenti di mercato “sbagliati” (basti pensare a gran parte del tessile) dovranno chiudere, in quanto non potranno mai reggere i prezzi (ed i costi!) della competizione dell’Est Europa, della Cina o del Vietnam. Queste sono in gran parte quelle aziende che hanno beneficiato del connubio svalutazione della lira ed evasione-elusione fiscale, che non hanno saputo riconvertire le proprie aziende, rimanendo così a fare la parte dei “cinesi d’Europa”. Le condizioni macroeconomiche non sembrano poi concedere scuse alcune (basti pensare al repentino apprezzamento dell’Euro sul Dollaro degli ultimi anni), quindi non potremo che assistere alla continua uscita dei player inefficienti da un lato e l’emergere, dall’altro, di alcune realtà che sapranno sempre meglio presentarsi come leader nel proprio distretto, riuscendo ad ottenere buoni risultati nei mercati internazionali (Tod’s, Geox, Luxottica, Technogym, etc…).

Quello che stiamo vivendo è un momento di grandi cambiamenti esterni, innescati dalla fine della grande divisione fra paesi comunisti e “democrazie occidentali”. Dall’emergere di nuove potenze politico-economiche (Cina, India, Russia, Brasile, Indonesia) a quello di nuovi ed agguerriti player in ogni mercato, dovendo poi fronteggiare poi imprevedibili fonti di instabilità (sempre nuove minacce di terrorismo, guerre e catastrofi naturali). Questo è sempre più un mondo globalizzato, dove le nostre aziende dovranno fronteggiare una situazione in cui fare business risulta essere sempre più rischioso, in cui vince chi meglio riesce ad anticipare un mondo che è in continua e rapida evoluzione. E in questo quadro ci domandiamo che cosa possono fare (spesso “non fare”) chi ci governa, i nostri rappresentanti politici, chi decide la nostra politica economica, la nostra capacità di essere competitivi.

Siamo un paese che ha un urgente bisogno di cambiamenti reali, di “sintonizzarsi” con le nuove frequenze del Terzo Millennio, necessitiamo di quelle riforme che potranno far ripartire un paese fermo, incagliato e con sempre meno energie. Mi riferisco a quella mancanza di dinamicità interna, dovuta alla contrapposizione fra chi ha una rendita, una posizione di privilegio (non certo acquisita con merito) e chi deve scegliere fra sfruttamento o emigrazione. Ecco che la mia ricetta si scandisce in quattro punti principali (in ordine di difficoltà?): maggiore competizione, un sistema giudiziario rapido ed efficiente, aprirci al mondo dell’innovazione e far ripartire l’economia del Mezzogiorno.

Per maggiore competizione dico che dovrebbe finire in Italia il partito delle rendite, dovremmo andare contro certi interessi di parte, per aprire il paese a nuove e giovani idee, italiane o straniere che siano. Dovremmo rendere il nostro sistema giuridico meno cavilloso, più aperto, permettendo a nuovi soggetti di entrare nella scena competitiva, togliere di mezzo le infondate paure e l’interesse nazionale (basti ricordare le vicende Alitalia o Telecom Italia), permettendoci di avvicinarci di più a questo nuovo mondo dinamico. Dovremmo avere un sistema maggiormente meritocratico, che non verta su diritti dinastici (farmacisti o notai ne sono un esempio) o sulle solite conoscenze, per evitare lo spreco delle nostre menti (e idee) migliori.

Un sistema giudiziario rapido ed efficiente, è quello che permette alla vita media di un procedimento giudiziario, di avere tempi normali (qualche mese, un anno, due massimo), per evitare che a chi abbia subito un torto debba aggiungersene subito un secondo.
Per avvicinarci al mondo dell’innovazione, per aumentare il livello del capitale umano, delle conoscenze, per permettere al nostro paese di aumentare la produttività del fattore lavoro, basterebbe, almeno nel breve termine, limitarsi ad importare l’innovazione, le conoscenze che già esistono, per applicarle efficacemente al nostro sistema produttivo. Per poi cercare di ottenere risultati nel medio-lungo termine, occorrerebbe investire nel capitale umano, in un sistema scolastico maggiormente meritocratico, evitando magari di trasformare le università in grandi licei (utile sarebbe mettere test all’entrata obbligatori per ogni facoltà, che non si basino sul “numero chiuso”, ma su un livello minimo di conoscenza necessario). Per cercare di produrre ricerca, dovremmo incentivare le università con premi a denaro a seconda delle pubblicazioni raggiunte in quell’anno, spingendo queste ad incentivare a sua volta chi vi lavora seriamente ed avere il coraggio di “lasciare a casa” chi non si impegna adeguatamente a fare ricerca(cambiando anche i relativi riferimenti normativi). Altro punto interessante potrebbe quello di avvicinare maggiormente pubblico e privato, università ed imprese, magari creando dei consorzi in cui partecipino capitali privati e “cervelli” pubblici, consentendo così un maggiore controllo di questi ultimi.

Ma la sfida che sembra essere più difficile è quella di far ripartire l’economia del Mezzogiorno, che richiede necessariamente condizioni base il raggiungimento dei prime tre punti discussi sopra. Storicamente uno dei più grandi errori nei confronti del Mezzogiorno è stato quello di averci dei pianificatori al governo, che assegnando questi o quei contributi, non facevano altro che distorcere l’economia locale. Così facendo si è creato un vero e proprio indotto di professionalità e burocrati che si adoperano per l’ottenimento del contributo (ma non dimentichiamo il peso della “mazzetta”), senza peraltro risolvere i problemi del Sud, limitandosi solo ad aumentare le fila dei soggetti dipendenti dai “soldi di Roma”. L’Italia (e l’Europa) dovrebbe mettere la parola fine a questa radicata distorsione, cercando piuttosto di aiutare il Meridione a prendersi maggiormente cura di sé, garantendo sì le infrastrutture necessarie (finire la Salerno-Reggio Calabria, dare dignità alle ferrovie del Mezzogiorno), ma lasciando alla libera iniziativa dei soggetti economici locali la forza del cambiamento, creando magari una “no tax area” (con aliquote fiscali nulle o ridottissime) su vasca scala. Tutto questo però non porterà mai a risultati sufficienti se non ci sarà la volontà di reagire alle numerose mafie locali, vero cancro del Mezzogiorno e sempre più pronte ad inghiottire settori “sani” dell’economia anche in altre zone d’Italia. Si tratta di un obiettivo senz’altro difficile, ma non impossibile, da combattersi soprattutto sul lato economico (basti pensare a come vengono gestiti gli appalti nel Sud italia), con la consapevolezza che anche decisioni forti e poco popolari (liberalizzazione delle droghe e della prostituzione?) potrebbero indebolire queste organizzazioni criminali.
Anche alla luce della recente crisi finanziaria, che solo apparentemente avrebbe risparmiato il nostro paese (se è vero che “l’arretratezza” del nostro sistema finanziario ha permesso alle nostre banche di cavarsela meglio di quelle inglesi e statunitensi, le nostre imprese hanno gravi problemi e rischiano seriamente di chiudere), ci accorgiamo di essere ad un importante giro di boa: cambiare mentalità e tornare ad essere competitivi, o sprofondare nel limbo in compagnia di quei paesi un tempo ricchi (come l’Argentina della Belle Epoque di fine ‘800).

giovedì 20 agosto 2009

Paura del Medioevo? Sì, quello leghista…

Rispondo a Matteo Lazzaro, che il 10 agosto 2009 manda al Corriere della Sera una lettera, in cui proclamandosi studente leghista, si vergogna dell’Unità d’Italia.

E’ innegabile che gran parte di ciò che è nato intorno al Risorgimento d’Italia, presenti gli ingredienti romanzati di chi, con ciò ha cercato di costruire un sentimento nazionale, una coscienza unitaria, che ritroviamo nei libri storici del tempo con i toni di chi si rivolge ad un pubblico di bambini ingenui. Forse l’apice della “storiella romanzata” la ritroviamo nella spedizione dei Mille, dove ci vogliono far credere che un esiguo numero di “volontari”, mal equipaggiati e poco formati riescono a liberare (conquistare?) il Regno delle Due Sicilie, forte di un esercito ordinario di 20.000 soldati. Chiaramente subentrano altri aspetti meno alla luce del sole, come le navi inglesi che puntano i cannoni verso Napoli (e sparano pure qualche colpo!), o le diserzioni di massa degli ufficiali borbonici, che guarda caso li ritroveremo poi nelle fila dell’esercito del futuro Regno d’Italia (i nostri nonni usavano dire: “soldato italiano, ed ufficiale austriaco”, a dimostrazione di quanto poco formati fossero i nostri comandanti).

Pur prendendo la distanza da un certo concetto di storia, dove forse le uniche certezze sono le date, vorrei ricordare a Lazzaro che quella dell’Unità d’Italia è stato un processo fortemente voluto, soprattutto al Nord Italia. Certo, si tratta pur sempre del ceto liberale-borghese, degli intellettuali, dei cittadini (emblematiche le Cinque Giornate del 1948 in cui i cittadini di Milano insorgono contro Radezski), ma penso che difficilmente i contadini analfabeti (il cui principale problema era la fame, non certo la libertà) avrebbero potuto insorgere contro chi gli garantiva ordine e pure una certa protezione economica. Diversa è la situazione per il Meridione, che deve subire da subito il peso dell’Unità d’Italia, che vede soffocate nel sangue ed in atroci violenze le promesse avute (Garibaldi aveva promesso l’abolizione di alcune tasse che gravavano sui ceti più umili, come la tassa sul macinato, oltre che una riforma estesa del latifondo). Pur non essendoci chiarezza nelle stime, sembra che la lotta al brigantaggio abbia fatto più morti delle tre Guerre di Indipendenza, insomma il Sud Italia alla nascita del nuovo stato non versava certo in quel clima pacifico di stabilità in cui prosperavano le industrie del Nord, ma fece da sfondo ad una vera e propria guerra civile in cui fu negata ogni dignità dell’uomo (si pensi alle persecuzioni di Cialdini o alla Legge Pica del 1863).

E’ ancora cronaca di oggi la “Questione meridionale”, le marcate differenze che sussistono tra i “due paesi”, differenze culturali, di mentalità e soprattutto, a mio avviso, istituzionali. Nel pensiero di Lazzaro e dell’ideologia della Lega del Nord (nata dal basso, dal “popolo” a differenza di chi crea e disfa un partito in nome di sé stesso), mi sembra di vedere una grande rabbia caotica contro “Roma ladrona”, contro chi percepisce una pensione di invalidità pur non essendo invalido, contro le alte tasse pagate dai lavoratori del Nord a favore dei disoccupati del Sud. Così come nell’atavica paura dell’immigrato (che arriva in Italia per rubare o spacciare droga e, se islamico per colonizzarci; mentre se lavora, bè allora sottrae il posto di lavoro ai nostri figli), a me sembra di vedere nell’ideologia leghista una certa insofferenza, una difficoltà a capire i grandi cambiamenti del mondo in cui viviamo, una preoccupante distanza dal XXI secolo, per poi aggrapparsi nelle facili argomentazioni dei vari capri espiatori.

Alcune delle argomentazioni del pensiero leghista non sono altro che ovvietà: in qualunque paese civile la discussione sul pagamento delle tasse non dovrebbe nemmeno sussistere (è più che normale che chi NON le paga commette un reato e per questo deve essere punito, senza ma e senza se). Anziché nascondersi dietro queste populistiche argomentazioni, sarebbe più opportuno cercare di capire perché tutto questo accade, quali le responsabilità di questa degradazione etico-culturale. Quali sono le responsabilità di una classe politica esosa ed incompetente, che ha portato alla proliferazione di clientelismo ed organizzazioni criminali? Perché non iniziare da ora a minare da le basi economiche della Mafia, invece di continuare a prendere consensi aumentando la presenza militari, sbandierando l’arresto di questo o quel boss (la Mafia è qualcosa di dinamico non statico, colpito un capo se ne fa un altro).

Invece l’ideologia leghista è da sempre incline all’isolamento, all’esclusione, ai dazi ai cinesi, al “calcio in culo all’islamico”, alla secessione, al no all’Europa. Senza dubbio i proseliti che tali argomentazioni stanno avendo sono sintomo di un male, di una serie di problemi più o meno nuovi del Settentrione e dell’Italia intera. Ritengo che il grande cambiamento che stiamo vivendo da un po’ di tempo sia la causa principale di questo malessere, di questa “paura” padana. Siamo in un mondo in forte e rapido cambiamento, dove negli ultimi venticinque anni abbiamo assistito al crollo del sistema basato su “freddi equlibri” che c’era prima, all’apertura senza precedenti degli scambi mondiali e alla repentina rivoluzione tecnologica (dal cellulare al web 2.0). E in questo nuovo scenario globale, l’Italia sembra essere caduta in un declino non congiunturale della propria economia, agli ultimi posti fra i paesi OCSE per gli investimenti in ricerca e sviluppo, con un debito pubblico in continuo aumento e dove le proprie imprese sono sempre meno competitive (bilancia commerciale in rosso dal 2000 e quota del nostro commercio globale che passa dal 4% del 2003 al 3,5% del 2005), questi, forse sono i veri motivi del disagio italiano (e le cause la classe politica?).

Siamo in un mondo in cui per esistere devi essere aperto, globale, connesso, dove la tolleranza verso culture diverse può essere la nostra ancora di salvezza. Se mettiamo i dazi ai cinesi, le nostre aziende tessili continueranno sì a vendere nel “piccolo” mercato italiano, ma se non si riconvertiranno subiranno comunque la concorrenza cinese nei mercati esteri e si dovranno accontentare di rimanere piccole ed inefficienti in Italia (alti prezzi, poca competizione, bassa qualità, quello che il caso Fiat dovrebbe ricordarci). Per non parlare della guerra commerciale che si creerebbe, con effetti negativi a cascata a tutte quelle aziende che esistono grazie all’export del Made in Italy in Cina (il più grande mercato del futuro). Così invece di cadere nella chiusa mentalità leghista che vorrebbe nelle scuole i dialetti, che renderebbero i nostri studenti ancora più distanti dal mondo “là fuori”, io proporrei che venisse insegnata a scuola una lingua asiatica, magari proprio il cinese. Creando scambi bilaterali potremmo fare insegnare l’italiano in Cina, avvicinando le due culture e magari anche i gusti dei consumatori (60 milioni contro 1 miliardo e 300 milioni: indovinate chi ci guadagnerebbe).

Lazzaro teme che l’Italia di domani non abbia più nulla di italiano, perché l’orda barbarica di culture nuove avrà cancellato la nostra “memoria storica”. Io vedo invece la possibilità di un forte arricchimento culturale reciproco, dove la nostra cultura uscirà dai confini nazionali insieme all’Italian Style e al Made in Italy, e dove noi potremmo aggiungere alla nostra cultura (peraltro in continuo movimento e non qualcosa di statico come vorrebbero i cultori dell’arretratezza) la conoscenza di altre culture (la vera forza e ricchezza dei Romani forse era proprio in questo atteggiamento mentale di apertura verso culture e religioni differenti). A me fanno paura questi leghisti, ho paura della loro chiusura mentale che ci potrebbe sì far scivolare in un nuovo Medioevo.

mercoledì 12 agosto 2009

Perchè perdere tempo a leggere vecchi miti...?

Che cosa rappresenta il mito oggi, nel XXI secolo? E’ forse solo una cozzaglia di racconti e fiabe senza un senso per noi uomini “evoluti”? Si tratta forse di una sorta di commedia per intrattenere gli uomini del tempo?

Quello che cercherò di analizzare è una serie di profonde analogie che attraversano praticamente tutti i miti antichi, spaziando dalle civiltà del Medio Oriente, alll’Islanda, alla Polinesia, all’Africa fino all’America pre-colombiana. Partiamo dall’immagine del diluvio, presente ovunque ed in qualsiasi civiltà (anche lontana dalle coste!), ma con dimensioni universale solo nei racconti biblici, sumerici e babilonesi. Così il dotto, addolcito studioso moderno parte alla ricerca di evidenze storico-geografiche che diano concretezza a quest’immagine catastrofica, ricercandovi magari catastrofi passate, senza accorgersi del vero significato di questi racconti.

Quello che il mito (strumento e linguaggio alquanto ambiguo) rappresenta, è invece un’immagine cosmologica, di ciò che sta “al di sopra” e non potrà mai spiegare gli eventi storici, od avere evidenze geografiche. Infatti gli antichi utilizzavano questi racconti come veicolo di una conoscenza superiore, usavano metafore semplici e concrete perché anche il volgo ne parlasse, se ne appassionasse e ne serbasse memoria, senza peraltro carpirne il vero significato cosmologico, intimo segreto di un’elite di grandi conoscitori dei meccanismi dell’universo.

In queste metafore troviamo la terra come il piano ideale passante per l’eclittica, dove l’equatore divide a metà lo zodiaco che è inclinato rispetto ad esso di 23,27 gradi. Così la fascia settentrionale dello zodiaco (ovvero quella che va dall’equinozio primaverile a quello autunnale) è detta terra emersa, mentre quella meridionale è il mare. Gli antichi sapevano che i punti equinoziali si spostano lungo l’eclittica in direzione opposta a quella del sole, questo perché l’asse terrestre non si mantiene parallelo a sé stesso durante il giro attorno al sole, descrivendo nel cielo un cerchio attorno al polo dell’eclittica. Questo fenomeno è il moto della precessione degli equinozi, che ha una durata di circa 26.000 anni, diviso in 12 ere o età del mondo, a seconda di qual è la costellazione zodiacale che sorge immediatamente prima del sole all’equinozio di primavera, segnandovi il posto dove il sole dovrà sostare. Per questo motivo questa costellazione viene chiamata “portatrice del sole” o “principale pilastro del cielo”. Così capiamo che quando i cinesi consideravano la terra come “quadratica”, non si riferivano più alla terra in senso fisico-spaziale, ma ai 4 punti (i 2 solstizi e i 2 equinozi) dominati da una costellazione. Quella costellazione avrebbe quindi retto il sole, sorgendo all’equinozio primaverile, per circa 2200 anni, per poi finire il proprio tempo con l’immagine di una terra che sarebbe sprofondata nelle acque (la fascia meridionale) e la nascita, sempre dall’acqua di una nuova terra. Questo dovrebbe permettere di capire meglio il Mito di Deucalione, una sorta di Noè che costruisce un’imbarcazione per salvarsi dai 9 giorni di diluvio che si abbattono sulla Grecia per volere di Zeus, oppure la Profezia della Sibila (anche qui finisce una terra e ne sorge una nuova dalle acque), insomma la costante è la rinascita di una nuova terra (nuova età) dal mare.

Il susseguirsi di un’era del mondo ad un’altra ha però moto contrario rispetto al ciclo del sole, così nei secoli siamo passati dall’era del Toro a quella dell’Ariete (quando Mosè si scaglia contro il suo popolo che danza intorno al vitello d’oro o toro rappresentante un’era ormai terminata, per portarne una nuova discendendo dal Sinai incoronato con le “due corna” dell’Ariete), e dall’era dell’Ariete a quella dei Pesci, dove ci troviamo tutt’ora. E qui si parla di Cristo, detto anche il Pesce (i primi cristiani usavano il pesce come simbolo delle loro riunioni), così quando Virgilio, considerato addirittura un pre-cristiano da alcuni studiosi, saluta la nuova età con l’espressione “nasce di nuovo una grande serie di secoli”, dimostra un’attenta conoscenza astronomica. Così scopriamo che il 6 A.C. (anno in cui viene fatta cadere la nascita di Cristo) è l’anno della grande congiunzione di Saturno e Giove nei Pesci (la stella cometa?), oltre che il grande ritorno della Vergine nell’equinozio autunnale. Tutto questo dimostra il significato ultimo che gli antichi davano alla lettura del mito, come enigma in cui leggervi i grandi cicli del Tempo, da cui interpretare i voleri divini e come mezzo di diffusione di un’attenta conoscenza.

Partendo dalla storia di Saxo Grammaticus, che ha ispirato Shakespeare nel racconto di Amleto, troviamo due analogie con il mito islandese: la prima è il riferimento al personaggio Orvendel (il padre di Amleto), la seconda è un passaggio del racconto in cui il mare viene definito Mulino di Amloði. Quindi Saxo si riferisce chiaramente a quel mito islandese, dove si narra di un certo Fròði, proprietario di un enorme mulino, che si era procurato due fanciulle gigantesche, Fenja e Menja, per far funzionare il suo Grotti (il mulino), dalla cui macina uscivano oro, pace e felicità. Ma l’avidità di Fròði, che costringe le due fanciulle a lavorare giorno e notte, porterà queste a ribellarsi al loro destino e a cantare una profezia, che avverandosi farà uscire dal mulino un esercito di soldati che comandati dal Re del Mare uccideranno Fròði. Ma il Re del Mare, portato il Grotti sulla propria nave obbliga le due fanciulle a tornare al lavoro, ma questa volta dal Grotti uscirà sale per poi sprofondare nella notte negli abissi del mare. Da allora nel mare si trova un gorgo dove l’acqua precipita dentro il foro della macina di questo mulino.

Lo schema di questo mito si trova in molte altre culture, e tratta sempre di un inizio, un’Età dell’Oro, a cui però farà seguito una catastrofe, una discontinuità, un “peccato originale” (per gli antichi solo gli dèi-astri potevano far funzionare o distruggere l’universo e quindi il male era estraneo alla natura), che porta allo scardinamento dell’ordine precedente. Gli antichi credevano la sfera celeste una “macina ruotante”, ove il Polo Nord (Stella Polare) fosse la boccola entro cui ruotasse il ferro del mulino, ma questa Stella Polare ogni poche migliaia di anni doveva andare fuori posto (la Polare infatti non è sempre la stessa stella) ed ecco spiegato lo scardinamento del mulino. Quindi sarebbe il tempo a trasformare i Titani o gli Asura (per gli indù) in operatori di iniquità, per avere oltrepassato il grado preordinato, creando confusione in ogni cosa (siamo così sicuri che i Titani siano solo dèi?), per cui il loro destino sarà di essere ricacciati sotto terra (nel più profondo tartaro) per essere sostituiti da nuovi reggitori dell’universo (ma in attesa di un loro eterno ritorno).

A questo punto pare interessante vedere alcuni punti fondamentali nella mitologia degli indios Cuma (America pre-colombiana). Essi ritenevano il gorgo come il collegamento fra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma molto tempo prima, vicino ad esso vi cresceva un albero in grado di dare o salvare la vita, che fu però abbattuto (lo scardinamento del mulino) e da quel giorno si è formato un vortice. Queste storie si trovano un po’ ovunque: si tratti di un albero (magari una magnifica quercia presente in molti miti) oppure di un tappo o di una pietra (come in alcune leggende ebraiche), cui fa seguito la rimozione o l’abbattimento di questo perno e la creazione di un vortice, o un fuoco, che prima non esisteva per creare un passaggio (le figure Gilgames e di Alessandro sono eroi alla ricerca di questo nuovo passaggio). In questo gorgo che scorre attraverso il mondo degli inferi si intravede la galassia, la fascia che collega il Nord (il “sopra”) con il Sud (il “sotto”), ed è la figura del fiume Eridano (o Via Lattea) che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Riprendendo il mito della caduta di Fetonte nell’Eridano, sappiamo che la dimora di Fetonte-Kronos (Saturno), decaduto sovrano dell’Età dell’Oro, si trova proprio alla confluenza di tutti i fiumi, nell’Eridano (o Nilo o Gange o Po) assopito in un sonno atemporale presso il Polo Sud celeste, ovvero Canopo.

Dal linguaggio mitologico emerge una costante, ovvero la presenza di un’Età d’Oro (un paradiso terrestre), che però si scardina e porta all’inizio del tempo, delle misure, del mulino che macina sofferenza. Questo fenomeno dovrebbe indicare la nascita della Precessione degli equinozi, il susseguirsi di un’età del mondo ad un’altra, l’allontanamento dell’eclittica dall’equatore. In questo lento, ma inesorabile scorrere del tempo in un moto circolare, gli antichi vedevano l’armonia di un mondo in cui il passato chiama il futuro e viceversa. Quindi la fine della terra non è altro che la fine di un’era, e del reggitore di quel tempo, che sarà però sostituito da nuovi dèi in un moto circolare infinito. E’ questo il mondo in cui i Greci avevano il senso di limite, di misura, in cui ogni fenomeno naturale era collegato con uomini e dèi, in cui i pitagorici avevano circoscritto a tre le scienze par excellence: il numero, la musica e l’astronomia. In questa visione la concezione indù della reincarnazione riacquista forza essendo sostenuta anche da Platone nel Timeo, dove l’umanità viene paragonata al grano che si suddivide sempre di più (inizialmente gli dèi diedero un seme dell’uomo) ed è macinata dal Mulino del Tempo.

Mi domando quale sia il destino di una civiltà, quella occidentale moderna, che da Descartes in poi ha trovato nella matematica il potere miracoloso per la conquista della materia e dello spazio come dimensione in cui meglio immedesimarsi. Questa nostra dimensione, così distante (nel senso spaziale del tempo) da quella di tempi e civiltà passate, ci ha dato la presunzione di sentirci superiori e distaccati, ma solamente in quanto distanti dal tempo per la nostra stessa concezione di tempo spaziale (che è una linea retta proiettata nell’infinito), il che puzza di arroganza, denotando la stoltezza di tutta la nostra predilezione per tutto ciò che è materia. Forse il nostro stesso paragonarci a dèi (un occidentale medio vive quasi come un re dell’antichità) ci ha reso ciechi, chiusi come siamo nei nostri teoremi di prosperità, incapaci di leggere il messaggio che gli antichi (non certo inferiori a noi dal punto di vista intellettuale) hanno conservato nei secoli, parlando di dèi presuntuosi, litigiosi e boriosi che accrescendo di numero spargevano silenziosamente iniquità e caos nell’ordine dell’eterno divenire.

lunedì 10 agosto 2009

Inizio

Oggi ho deciso di aprire questo spazio a chiunque voglia curiosare sui miei interessi, a chiunque voglia discutere di qulsivoglia argomento, che cercherò di affrontare con una cadenza più o meno settimanale!

Il mio punto di vista cercherà conforto in questo spazio, nato per l'esigenza di spazzare via tutte queste ovvie raccomandazioni da buon moralista che si leggono troppo spesso in giro...